16 tonnellate di debito nella mia testa

Un post umorale dedicato ad una vecchia canzone country il cui ritornello risuona nella mia testa da questa mattina al risveglio. Sarà forse per colpa della nostra economia, oppure del debito pubblico, ma questo ritornello del 1946, cantato oggi, potrebbe sortire deprimenti effetti collaterali. Con un’Italia che crolla, sotto il peso del deficit, della disoccupazione, sotto la spinta del terremoto, il brano “Sixteen Tons” apparirà forse antico, ma il suo ritornello contiene un’insidiosa constatazione che invece è molto attuale: «You load sixteen tons, what do you get?/Another day older and deeper in debt/Saint Peter don’t you call me ‘cause I can’t go/I owe my soul to the company store». Sarà per via del precariato che, purtroppo, affligge anche me, sarà forse per colpa della mia situazione, che mi fa pensare che sarò tra quelle persone che non vedranno mai una pensione lavorativa, ma ciò che mi condiziona sul serio è la fatica che generalmente si fa a combattere contro un nemico invisibile: non tanto la precarietà o la disoccupazione ma la paralisi sociale, la difficoltà di impegnare creatività e volontà in modo costruttivo in un Paese che sembra diventato povero di idee per crescere e progredire, per continuare a vivere e fiorire. Un Paese che spegne tutte le volontà realmente proiettate verso nuove idee e possibilità. Un luogo che sperpera i propri tesori (la cultura e la ricchezza in ogni campo) e che debilita e depotenzia la vita di ognuno. C’è una guerra in atto che ci sta dilaniando, lo sappiamo ma non possiamo fare a meno di combatterla: è la battaglia di chi stringe i cosiddetti “cordoni della borsa”, per tentare di arginare lo sfacelo già in atto, e chi invece stringe i denti e basta, lotta per resistere, dubitando però che il “sacrificio generazionale”  – di precari di tutte le età – potrà servire per rimettere in moto l’economia e per guarirci dalla paralisi.

Merle Travis prese questa canzone popolare e disse che un debito così spietato è impossibile da pagare, anche col lavoro duro. Il testo racconta di un sacrificio insufficiente e di una vita intera che non basta per colmare il debito (quando chiede a San Pietro di aspettare a chiamarlo in paradiso, perché l’operaio ha la necessità di lavorare fino all’ultimo attimo della sua esistenza per riportare le cose a posto). Nel nostro caso, diremmo che l”impossibilità di colmare il deficit derivi dallo spreco (dallo spread, dalla burocrazia…), dalla cattiva gestione delle risorse disponibili, dai tagli orizzontali e ciechi, dal carico fiscale che si abbatte sulle tasche di chi, di denaro, ne ha già poco, da quell’asfissia e dalla morte momentanea che siamo costretti a sopportare per colpa del blocco della crescita (perché il PIL riprenderà a salire solo nel 2013). Eppure i sacrifici  sembrano il male necessario per salvare il nostro futuro: un  futuro che forse non è neanche  il nostro ma di chi verrà dopo di noi in un’Italia che continua inesorabilmente a sgretolarsi, a disperdere progressi e risultati, successi e cultura.

16 Tons parla del concetto di debito come colpa da espiare, da ripagare con il duro lavoro. Oggi il debito è stratificato ed è legato al cattivo funzionamento del sistema economico e della politica (dei ladri, dei “condoni” e dei mafiosi non parlerò in questo post), all’incapacità di trovare un rimedio efficace che rappresenti quella svolta che dia un nuovo corso alle cose.

Perché oggi, purtroppo, non si ragiona più in senso prospettico: si finge di pensare al futuro per negare l’incapacità del presente. Si finge di pensare ad un domani migliore – che dovremmo impegnarci a costruire, adesso, subito – e ci limitiamo ad esercitare il nostro sguardo corto sull’emergenza, come se, con un semplice gesto, potessimo arginare l’uragano. Io, che non sono una statista né un’economista, non possiedo la ricetta per uscire dalla crisi: se  ne esistesse  davvero una, facile e immediata, forse  chi ci governa l’avrebbe già applicata e saremmo fuori da questa atroce situazione.

Ma nonostante i limiti vorrei che si configurasse un presente capace di rappresentare una sorta di “New Deal” delle idee e delle progettualità,che sappia superare l’ostilità debilitante e la paralisi, che sappia  correggere questo strano errore cognitivo che ci fa credere che, pensare al futuro, significhi semplicemente sperare di vivere meglio domani – mentre smettiamo di farlo oggi – senza impegnarci per vivere meglio giorno dopo giorno -senza soluzione di continuità tra presente e futuro – perché soltanto così è possibile costruirci un domani migliore: l’avvenire.

Il debito accumulato non si colma prendendo risorse dove non ci sono e impiegandole dove non possono fruttare.

Lo sforzo comune,poi. è nullo se non diventa davvero comune e misurato sulle  possibilità di ognuno.

Domani,vedremo cosa avremo fatto del nostro domani.

Pubblicato da musicheculture

Musicheculture, sito di informazione, storia, attualità e cultura musicale diretto Giuseppina Brandonisio,

2 Risposte a “16 tonnellate di debito nella mia testa”

  1. E dai Giusy…
    Va be’ che “il debito è un peccato” ma, nonostante la “politica del rigore” – di cui per un po’ è stata complice anche la Francia – lo spread dell’Italia calcistica è nettamente superiore a quello della Germania. E vedrai che la spunteremo anche questa sera!
    Raccomandiamoci a San Mario un’altra volta!!!!!

  2. Ciao Pina, ti volevo lasciare un saluto. Vengo dalla lettura dell’ultima discussione. Mi dispiace sapere che stai male: ti auguro di rimetterti presto.
    Quest’anno l’economia non va meglio dell’anno scorso. Pure lo spread spagnolo ci ha distaccati. Ma intanto San Mario ha azzecato il rigore e ci ha portato ai mondiali.
    Auguri 🙂

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