In quanto ai poeti della Beat Generation – Corso, Ginsberg e Kerouac i suoi maestri – sono quelli che lo avevano accompagnato fin dall’adolescenza aiutandolo a vestirsi dei panni di un bohemien di nuova generazione che si esibisce nei bassifondi di New York e di altre città, anche europee, magari da solo, accompagnandosi soltanto con la chitarra, come aveva fatto anche un altro dei musicisti “maledetti” che lo avevano ispirato: Robert Johnson col suo blues.
La sua carriera durò soltanto pochi anni: esordì nel 1986, pubblicò “Grace”, il suo primo album, nel 1993, partì per un tour, pubblicò il secondo album (“Sketches for My Sweetheart the Drunk”) nel 1997 e in quello stesso anno morì accidentalmente affogando nelle acque del Wolf River all’età di 30 anni.
Strana è stata la vita di Jeff Buckey: perse il suo padre naturale all’età di 9 anni (Tim morì per overdose di eroina nel 1975) e come musicista debuttò per il grande pubblico al concerto tributo denominato “Greetings from Tim Buckley” del 1990 interpretando “I Never Asked To Be Your Mountain! che suo padre aveva dedicato alla propria moglie e al figlio non ancora nato. Morì risucchiato da un vortice creato da un motoscafo di passaggio (che quasi lo travolse), eppure nelle acque di quell’affluente del Mississippi – fiume sulle cui sponde scorre anche la storia e il mito del blues – s’immerse spensierato canticchiando (secondo la testimonianza del suo autista Keith Foti) !Whole Lotta Love!, di quei Led Zeppelin che lo iniziarono alla musica. E così, “Sketches for My Sweetheart the Drunk” rimase un album incompiuto mentre Jeff divenne un oggetto di culto, per I suoi fan che in lui vedono riflessa l’immagine dell’artista maledetto – come Cobain, Jim Morrison, Robert Johnson, o gli scrittori della Beat Generation – ma anche l’ombra della solitudine e dell’abbandono.