Quelli che vedono il mondo al contrario e lo vogliono cambiare – mi rispose lei, con una saggezza che sicuramente andava oltre le apparenze di un look anticonformista e controcorrente, di quei “basettoni” con le camicie hawaiane e i jeans a zampa d’elefante, di quei ragazzi che stavano imparando a suonare e a comporre, anche canzoni pop, in quella specie di aula dove qualche volta, stufa di giocare con le bambole o con la palla, m’intrufolavo anch’io, importunando mio malgrado le persone adulte, che comunque mi tolleravano. “Nonna” Maria era rimasta seduta sui quei gradini per decenni, e chissà quante canzoni doveva aver ascoltato prima del mio arrivo! Lei doveva aver visto davvero anche quelli della beat generation di vent’anni prima! Lei non sapeva leggere néaveva mai parlato in italiano e forse, dell’inglese, conosceva quell’unica parola: “beat”. Nel 1978, quando anch’io ero ancora un’analfabeta, a dire il vero, l’inglese non lo sapevo parlare: non sapevo che quelle che sentivo provenire dai locali della scuola di musica fossero delle “cover”, tuttavia, fin da piccola, cominciai ad ascoltarne e a riconoscerne alcune: si trattava per lo più di canzoni rock, soprattutto di quelle degli Anni Sessanta, cantate in inglese, dei gruppi rock della “British invasion”. Anche la vecchietta doveva averle conosciute: dalle voci di Caterina Caselli, i Dik Dik, l’Equipe ’84… Ma le note che riconoscevo più velocemente di tutte erano del 1976, quelle di una canzone di un uomo che indossava un vestito tutto bianco e che avevo sicuramente visto in televisione, sempre che non confondessi quel dandy con John Travolta, il quale in quel momento imperversava con la febbre del sabato sera…
Le adolescenti invece portavano le scarpe con la zeppa che, secondo me, servivano per poter ballare in discoteca. Ascoltavo quelle che un giorno avrei imparato a definire “cover” e, per di più, “cover dei Beatles” quando, a certo punto, immaginai che la nonnina non volesse più affacciarsi all’uscio della porta…
Tuttavia ricordavo che lei mi aveva detto che quelli “alla beat” avevano fatto una “rivoluzione”, per poi smarrirsi, forse pentiti, e che tutto quanto era durato molto poco. Mi disse anche che in quel momento stavamo “peggio di prima” (e oggi mi pare evidente: era il 1978). Io non capivo assolutamente perché stessimo peggiorando, tuttavia avevo intuito che Hey Jude fosse una canzone triste e malinconica, mentre (You Gotta Walk) don’t look back, chissà per quale ragione, aveva il suono degli insegnamenti della vecchia e mi sembrava, perciò, una canzone molto saggia. Infatti, com’è noto, Hey Jude fu scritta da MCcartney. Paul la immaginò durante un viaggio in macchina mentre pensava al piccolo Julian Lennon, sapendo che i suoi genitori, John e sua moglie Cinthia Powell , stavano divorziando. Nella testa di Paul, durante quel percorso in automobile, il ritornello suonò come “Hey Jules”. Mentre l’ispirazione di Paul prendeva corpo pian piano, era il giugno del 1968. E’ particolare il caso di MCcartney che, per scrivere questa canzone, si ispirò sentimenti di un bimbo di cinque anni, figlio di un componente del gruppo in cui suonava. Infatti Paul, quando andò da John e gli accennò il testo, si sentì imbarazzato per il verso: The movement you need is on your shoulder (ciò che devi fare è scrollarti la faccenda dalle spalle. Come diremmo noi italiani:alzare le spalle, “fare spallucce”, fregartene). Si scusò con John, il quale, tuttavia, non ne volle sapere di permettere a Paul di modificare quel verso (solo il nome fu cambiato: “Jules” divenne “Jude” per una scelta di Paul, perché secondo lui “Jude” aveva un suono migliore, più “country”). La canzone fu ultimata in studio con l’apporto degli altri Beatles sull’ultima strofa, la coda e gli arrangiamenti. Infatti Hey Jude, pur essendo stata composta da MCcartney, è accreditata anche a Lennon, che ne interpreta il finale in modo straordinario, ripetendo i versi, urlando e lasciandosi andare ad alcuni virtuosismi vocali. E parafrasando, John rimescola le parole in un canto-parlato che assume toni epici e monumentali, e che a me, che non capivo il vero significato delle parole, dava l’impressione di mandare un messaggio, rivolto a qualcuno (forse a un bimbo come me), affinché quest’ultimo fosse spronato a fare qualcosa di buono, a correggere dei pasticci. L’universalità dei Beatles, probabilmente, consiste in ciò: l’essere stati capaci di attraversare il tempo e abbattere le barriere, comprese quelle linguistiche, per arrivare dritti al suono e alla matrice dell’emozione, originaria, della musica. Quel significato eloquente ed immediato, figlio di chissà quale strana e irripetibile alchimia, che si fa beffa di qualunque logica, intellettuale e razionale interpretazione del senso. E i Beatles li capiscono anche i bambini: anch’io ne sono stata la prova. Tutte le strade di Paul, compresa Abbey Road, sono di Paul. La mia prima strada del rock, invece, fu la strada di casa mia… Dalla strada sentivo provenire la musica che suonavano in quello scantinato della scuola. Ascoltavo spesso il suono degli archi: violini, viole e violoncelli, ma anche della chitarra elettrica, quando il maestro lasciava da soli i suoi ragazzi. E per me, che conoscevo già Hey Jude (un 45 giri pubblicato nell’agosto del 1968 sul cui lato B c’è Revolution), quei ragazzi della cover, che cantavano e suonavano anche gli strumenti classici, avrebbero potuto essere gli stessi del disco (a cinque anni e mezzo si ha una scarsa cognizione del tempo; i nomi dei componenti dell’orchestra che suona archi e fiati e che fa i cori nel singolo dei Beatles non sono stati indicati sulla copertina), perché, in fondo, la cover ed il finale che suonav ano loro, studenti di passaggio, veniva davvero bene. Hey Jude contiene dunque un’intuizione antichissima del coraggio e del senso del riscatto: “suona bene” ancora oggi, anche come anti-depressivo. Mi serve per non innervosirmi mentre ripenso ai pasticci e ai contrattempi che mi sono capitati durante le mie estenuanti vacanze. Tante altre strade ho percorso e tante altre case ho abitato nel corso della vita, comprese quelle immaginarie, e i castelli in aria. Quelli che mi sembravano luoghi da favola, spesso, erano raffigurati sulle copertine degli album dei Lez Zeppelin, dei Genesis, dei Pink Floyd e di altri gruppi progressive, che osservavo sin dalla più tenera età. Posso affermare che la musica reggae fosse stata la mia culla, riscatto e un senso profondo di rinascita. E forse, tra le mie suggestioni del passato, quell’idea della casa che lasci, quell’idea di qualcosa che finisce ma diventa un nuovo inizio, come Hey Jude, storia di legami che finiscono, è simboleggiata dall’immagine di questa casa molto famosa: Tittenhurst Park è una dimora antica, appartenuta prima a John Lennon e poi a Ringo Starr. Qui, il 22 agosto del 1969, fu realizzato l’ultimo set fotografico che vede i Beatles ancora insieme, appena terminate le registrazioni dell’album Abbey Road. In questa foto c’è Paul che si toglie qualcosa dall’occhio, forse s’asciuga una lacrima: provo un po’ di nostalgia ma anche un senso di pace. Ad acquietarmi è soprattutto la distanza che ieri, 22 agosto, ho posto tra me e i miei frenetici giorni di vacanza. “Giorni frenetici di vacanza”: sembra un ossimoro eppure equivalgono a una specie di disgrazia. È un periodo duraturo – di “sfortuna” direi, se diventassi superstiziosa – e problematico, che mi stanca e mi manda in “tilt”. Dunque provo a rilassarmi scrivendo e ascoltando musica. Adesso, che avrei bisogno di prendermi una vacanza dalla vacanza, dalla radio ripesco i vecchi Rain Parade: neo-psichedelici – dunque in qualche modo nostalgici – e degni esponenti del Paisley Underground degli Anni Ottanta. Con loro viaggio con la mente lungo le coste di San Francisco, ma con qualche anno di ritardo rispetto ai Sessanta, visto che i Rain Parade mi ricordano i Birds, mentre ascolto I Look Around per prendere a calci lo stress e la “sfortuna che mi perseguita”.
Spero che i miei tanti contrattempi mi lasceranno fare finalmente ciò che voglio (e di farlo bene) d’ora in poi selezionando gli Smiths di Please, Please, Pleas, Let Me Get What I Want.
Per rilassarmi (per riprendermi dalla mia recente disfatta), recupero l’equilibrio con Fix You dei Coldpay.
Infine aggiorno questa playlist, che è uno sfogo o un delirio (decidete voi che leggete, se ci riuscite e non vi ho annoiati fin qui), inserendo Depression Cherry, che è il quinto album dei Beach House in uscita il 28 agosto 2015. Così: tanto per restare tra ricordi e attualità musicali, giochi di parole e di immagini, tra sogni pop, rock ed evasioni psichedeliche, continuando ad attraversare le strade della musica anche solo per riposarmi un po’ e avere pazienza.
Lasciatemi le vostre suggestioni estive di ogni tempo, se ne avete voglia. E, naturalmente, anche le vostre canzoni.
Ho letto la tua gradevolisssima play list. Il tuo stile e’vivace. La storia di hey jude non la conoscevo anche se e’ una canzone che amo.scrivo mentre ascolto musica alla radio pri a i nirvana e ora musica africana. Sicuramente mi trovi nostalgica ma non depressa da vacanza perche’devo ancora andarci.ciao Giusy catreina