Sono schifato: voglio giustizia per la famiglia di George Floyd!

La dichiarazione è di Paul McCartney, scritta a caratteri cubitali in un tweet, per dimostrare come, in più di 50 anni di storia, la cultura razziale sia sopravvissuta a tutte le lotte per il rispetto dei diritti civili e dell’uguaglianza etnica. Parole forti, che hanno riportato l’ex Beatle indietro nel tempo, esattamente nel 1964, quando la popband più famosa della storia, dovendo suonare a Jacksonville, in Florida, vedendo la creazione di settori separati per il pubblico bianco e il pubblico nero, decisero di non salire sul palco del Gator Bowl. Lennon tuonò:”Non abbiamo intenzione di esibirci davanti a platee divise!”. I Fab Four quel giorno scoprirono il lato oscuro degli Stati Uniti e da quel momento pretesero che il pubblico americano dei loro concerti fosse mescolato e ,presto, questa imposizione divenne una clausola scritta nei loro contratti d’ingaggio. Le autorità dell’epoca furono costrette a ripiegare, i Beatles, all’apice di un successo che ha cambiato un’epoca, riuscirono ad influenzare il mondo intero e a sensibilizzarlo su un tema caldo, quello del contrasto al razzismo. Era l’11 settembre del 1964 a Jacksonville. Quel disegno di legge contro la segregazione razziale, annunciato da Kennedy l’11 giugno del 1963, era stato promulgato dal nuovo presidente Johnson,  ma nell’estate del 1964 la legge non era ancora esecutiva. A più di mezzo secolo di distanza,  esiste la legge per la desegregazione razziale ed esiste la rabbia: a disgustare Paul McCartney, come molti di noi, è stato quel ginocchio di Derek Chauvin, poliziotto bianco, premuto contro il collo di George Floyd -arrestato perché ha tentato di cambiare una banconota falsa- ma nero, il 20 maggio scorso, a Minneapolis, nel Minnesota. A creare raccapriccio nel mondo intero è senz’altro il barbaro accanimento dell’agente di polizia che ha soffocato deliberatamente un uomo ammanettato e inerme dopo una lunghissima agonia di 8 minuti. Sappiamo com’è andata (Floyd perde i sensi e poi muore in ospedale), ma a disgustare me, fra le scene di un omicidio in diretta, è stata l’espressione che Chauvin aveva sulla faccia, mentre sopraffaceva un uomo che non riusciva a respirare e guardava verso il telefonino che riprendeva la sua barbara performance. Nelle piazze mondiali si leva il grido di Floyd, “non respiro”. Si canta, si prega, si marcia, si protesta, si sfoga la rabbia. Floyd assurge a simbolo di una guerra contro una delle peggiori forme della bestialità umana, ed oggi che la storia non ha più nulla da insegnare, se messa a confronto con l’eloquenza delle immagini, possiamo almeno sperare che quel che è accaduto il 25 maggio del 2020 possa essere l’inizio di un cambiamento sociale e culturale che niente, nemmeno la legge, potrà portare.

Pubblicato da musicheculture

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