Partendo da un pezzo di stand up comedy sull’invidia del pene, la testimonianza della protagonista, una giovane donna sopravvissuta ad una relazione abusante, diventa un racconto che ha i tratti di un personale risveglio, una personale “primavera femminista”.
Beatrice Mitruccio ripercorre alcuni momenti decisivi di una sua passata relazione tossica alternando alla sua voce, le voci del passato, dei ricordi, che la stessa regista-interprete ha bisogno di affidare a due attori (Paolo Perrone e Martina Tirone). Queste prenderanno corpo come nei doppiaggi di Zero Calcare: voci della coscienza, crude e crudeli.
I racconti degli episodi che di più hanno segnato la storia personale di Mitruccio sono detti al pubblico con la semplicità con cui un’amica lo farebbe con un’altra: con sincerità ed autoironia. Ed è proprio nell’ironia che il testo trova la sua piena realizzazione.
La messa in scena dello spettacolo è essenziale, “abbiamo preferito lasciare spazio all’intellegibilità della drammaturgia e, a volte, ad alcuni movimenti tecnici che mi danno la possibilità di creare degli ambienti suggestivi con luci e proiezioni”, ci dice la regista. Ed è la stessa Beatrice Mitruccio infatti che, lavorando con il PC in scena, svolge nello stesso momento, la funzione di deus ex machina e interprete, perché questo è: un’artista che prima crea un habitat, e poi lo abita con il suo corpo e la sua voce, ricalcando per altro quelli che sono i suoi mestieri più praticati nel teatro, la regista e la tecnica luci.
Di fatto l’ispirazione per gli ambienti luminosi è quella delle tecniche delle opere dell’artista Andrea Santarlasci, che di temi come luce, ombre ed equilibrio, studiati anche quasi in maniera architettonica – e quindi, scenografica, fa un caposaldo delle sue creazioni. Altra ispirazione è quella degli ambienti olografici del danese Ólafur Elíasson.
Anche la scelta del titolo, Volano alberi spogli come radici, arriva con la scoperta di Santarlasci, il quale intitola così una sua opera del 1995 della collezione permanente della Galleria Nazionale di Roma, opera che a primo sguardo potrebbe non aver nulla a che fare con i temi e il plot del progetto, ma che tanto bene incarna l’emotività della protagonista: una creatura capovolta, diversa, sospesa, nello stesso tempo terrigna e aerea.
Gli elementi di scenografia sono affidati alla sensibilità di Mila Damato, performer e pittrice che realizza soprattutto soggetti femminili, e in questo caso due quadri-finestre che saranno appese in scena. Mentre l’attrice Martina Bonati, cantante e vocal coach, ha curato lo studio di un momento cantato nello spettacolo.
Grazie alla rinnovata collaborazione con Spin Time Labs, il palazzo romano ex-inpdap ora occupato e divenuto polo socio-culturale, Collettivo Est ha avuto la possibilità di provare negli spazi dell’auditorium.